Il Maestro svedese torna a ‘Scene da un Matrimonio’ con questa sua ultima opera interpretata alla Pergola da Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi diretti da Roberto Andò
Sarabanda, l’ultimo film di Ingmar Bergman, arriva a teatro con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi, diretti da Roberto Andò, sul palcoscenico del Teatro della Pergola dal 21 al 26 gennaio. In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a Scene da un matrimonio con i protagonisti diventati, trent’anni dopo, più maturi, ma anche più spietati. Un confronto tra ex marito ed ex moglie, alla presenza del figlio e della nipote.
Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli «ultimi giorni», sono i temi di questa Sarabanda. Una danza lenta e severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s’incontrano a due a due, per sciogliersi definitivamente nell’esecuzione della sarabanda di Johann Sebastian Bach a opera di padre e figlia. Un testo scomodo nella sua cruda onestà.
“Sarabanda è il film-testamento di Ingmar Bergman – spiega Roberto Andò -. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Handel. Come disse lo stesso Bergman in un’intervista: «Essa finì col diventare una delle quattro danze fisse nelle suite strumentali barocche, inizialmente come primo movimento, poi come terzo».
Sarabanda è l’opera più radicale di Bergman e sembra riconsiderare i grandi quesiti che il maestro svedese aveva affrontato nelle pellicole precedenti. Anche se è ritenuto un sequel di Scene da un matrimonio, a ben vedere è un film del tutto autonomo. La famiglia, la solitudine, l’arte come possibile redenzione, la vecchiaia, la morte sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i dialoghi di quella che si può definire una vera e propria pièce di teatro (Bergman fu a lungo indeciso sulla forma più congeniale cui affidare l’opera che stava concependo, se teatro, radio o cinema). Temi che sono ben presenti anche nella grande drammaturgia di Strindberg, di Ibsen, di Fosse, in una continuità che, al di là dell’originalità delle singole voci, tratteggia le linee di un preciso paesaggio esistenziale.
«Un inferno strindberghiano dove cova solo il disamore, dove – conclude Roberto Andò – non c’è spazio per alcuna trascendenza. Talmente spietato da creare l’effetto contrario. Un canto sulla mancanza d’amore, che nella sua intensità si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore dello sconforto e del congedo dal mondo».
Tutte le foto sono di Lia Pasqualino