Mario Nuti e il desiderio di raccontare “in blues” gli animi e le figure tormentate di un’epoca in rapido mutamento
La guerra, i morti, le macerie. Poi la ricostruzione. Nel dopoguerra in Italia c’era molto da ricostruire: gli edifici, le istituzioni, l’identità culturale, la società del lavoro, gli animi. Anche l’arte ebbe un bel daffare per svincolarsi dalla figurazione cupa e di maniera del Novecento sarfattiano, cioè di regime.
Ma, mentre architettonicamente la ricostruzione fu dominata dal compromesso tra antico e un moderato concetto di modernità, l’ambiente artistico era in fermento: doveva recuperare il tempo perduto: c’era bisogno di un nuovo realismo per affrontare i nuovi motivi sociali ed esprimere la mutata realtà, ma non si poteva prescindere dalla lezione di Picasso, di Braque o Lèger. Però nasceva anche l’esigenza di un linguaggio, che tenesse conto del “materiale” culturale finalmente fruibile a ogni livello: il Jazz, Mondrian e Malevich, l’Esistenzialismo francese. Il nuovo linguaggio, che idealmente doveva essere compreso da tutti era l’Astrattismo. Ovviamente vi fu una scissione tra gli artisti che seguirono il realismo e quelli che aderirono all’astrattismo.
Milano, Firenze, Roma, l’astrattismo si coagulò nei rispettivi gruppi: Movimento Arte Concreta, Astrattismo classico fiorentino e Forma 1. I fiorentini erano Vinicio Berti, Bruno Brunetti, Alvaro Monnini, Gualtiero Nativi e Mario Nuti.
Accettare le novità non è propriamente nel Dna di Firenze, se poi aggiungiamo la “scomunica” dei cinque artisti da parte di Togliatti che li aveva tacciati di intellettualismo borghese, non c’è da sorprendersi se alle inaugurazioni delle mostre volassero insulti e ceffoni, per non parlare dei quadri più di una volta sfregiati. Anche all’interno del gruppo le discussioni fervevano: gli artisti si ritrovavano spesso in un bar latteria di via della Vigna nuova, dove, tra gli schiamazzi, si affacciava spesso una donna che ordinava una China o un Vermouth per le “signorine” del piano di sopra. All’epoca, infatti, il mondo dell’arte si intrecciava frequentemente con quello popolare dei comuni cittadini, operai, artigiani, commercianti; erano mondi che si compenetravano e traevano forza l’uno dall’altro.
Astrattismo classico aveva la sua fragilità in un impianto teorico troppo rigido e nella volontà intransigente del suo fondatore, Vinicio Berti, di considerare l’astrattismo come frontiera ultima dell’espressione pittorica. Così il gruppo, nel 1950, si sciolse e ognuno prese la sua strada.
Per mio padre Mario Nuti, fu l’inizio di un percorso personale che lo avrebbe portato verso l’informale e poi al recupero della figura, sebbene sempre in chiave compositivamente e cromaticamente affine all’astrattismo. Eravamo alle porte dei chiassosi anni Sessanta, che con le lotte operaie studentesche, gli hippy, la minigonna, la Cinquecento e “chi Vespa mangia le mele” si affermavano come un periodo di profonda trasformazione sociale e culturale, e Mario Nuti sentiva il bisogno di raccontare, “in blues” come diceva lui, gli animi e le figure tormentate di un’epoca in rapido mutamento.
Prendeva così corpo una realtà di figure inconsapevolmente alienate, chiuse nei loro gusci di spoglia normalità, quelle che lui chiamava “controfigure”. La solitudine che lui dipingeva era quella della sua città, Firenze, isolata nel suo provincialismo (per quanto, rammentava spesso, fosse un “grande provincialismo”), ed era la sua stessa, data dal non riconoscersi più in una società che aveva tradito le promesse del dopoguerra.
Non che a Nuti importasse di essere benvoluto da critica o mercato, per quanto i suoi dipinti più recenti avessero un gran numero di estimatori, così alla sua morte lasciò un appunto sul suo quaderno di schizzi, una poesia di Prévert (che lui ebbe la fortuna di conoscere a Parigi):
“Compagni delle cattive giornate/vi auguro la buona notte/ E me ne vado./ Gl’ incassi sono magri/ E’ tutta colpa mia/ Tutti i torti sono miei/ Avrei dovuto dar retta a voi/ Cantare come il cane ammaestrato/ E’ una musica che va/ Ma ho fatto solo di testa mia/ E poi mi sono scocciato./ Quando si canta mostrando le zanne/ Bisogna andarci piano coi gorgheggi/ La gente non viene al concerto / per sentire urlare a morte/ E la canzone del cimitero dei cani / Ci ha procurato danni rilevanti./ Compagni delle cattive giornate/ Vi auguro la buona notte/ Dormite/ Sognate/ Io prendo il mio berretto/ Due o tre sigarette nel pacchetto/ E me ne vado…/ Compagni delle cattive giornate/ Pensate a me qualche volta.”