A venti anni dalla scomparsa, arriva in sala Hammamet di Gianni Amelio incentrato sull’ultimo periodo di vita di Bettino Craxi. Sarebbe sbagliato accostarsi alla pellicola nella convinzione di (ri)vedere fatti ed eventi che dal 1992 in avanti spazzarono via un’intera classe politica e un partito più di tutti: il Psi. Matteo Inzaghi, direttore dell’emittente televisiva Rete 55 di Varese e bravissimo collega nonchè valente critico cinematografico, in questo intervento spiega il perché.
Il successo di Hammamet, che nei primi giorni di programmazione sta spopolando, risiede, curiosamente, in un gigantesco equivoco. Il pubblico si precipita in sala convinto di assistere a un’opera storico-biografica dedicata a un politico a dir poco controverso, mentre il regista propone tutt’altro. Quello di Amelio, in effetti, non è un film documentaristico, ma una sorta di drammatica parabola sull’umano crepuscolo di un sovrano in (auto)esilio.
Le coordinate identitarie del protagonista sono tutte concentrate nella gigantesca prova di Favino, fuoriclasse camaleontico, così attento al dettaglio della mimesi da convincerci, in più scene, di trovarci di fronte all’originale. Ma tutto il resto, dai personaggi di contorno alle frammentarie schegge cronachistiche che qua e là (attraverso rabbiose telefonate, brevi conversazioni, sagaci confidenze) ci riportano al clima post Tangentopoli, viene volutamente ed esplicitamente trasfigurato, reinterpretato, consegnato a una messa in scena che dribbla la realtà e abbraccia la metafora, preferendo l’allusione alla narrazione.
E così, in Hammamet, non esistono nomi, nemmeno quello dello stesso Craxi, (perennemente sul proscenio ma mai citato), se non per le figure inventate: anime allegoriche, fantasmi legati al vissuto ma non del tutto identificabili e per questo utili a fare sì che il potere pressoché assoluto di un tempo possa lontanamente riecheggiare, evidenziando in modo ancora più marcato l’onta decadente di una morte annunciata. Com’è nel suo stile, rigoroso e mai calligrafico, ma sempre tentato dalla potenza evocativa della dimensione onirica, Amelio mette più verità nella quotidianità di luoghi, affetti, sfoghi e malattia, che nell’esposizione di fatti, date, relazioni.
Dai primi istanti, quando l’azione viene collocata “a fine millennio”, all’ultima scena, che ci catapulta in un’onirica infanzia, la sfida lanciata agli spettatori appare chiara: spogliatevi dei vostri ricordi: la ferita aperta da Mani Pulite non si è ancora rimarginata. Quel passato è ancora troppo vicino per poterlo serenamente elaborare. Ma è sufficientemente distante per tentare di esorcizzarlo.
Matteo Inzaghi