Cambiare si può, ma vogliamo farlo? In questo nuovo contributo lo psicologo Pier Paolo Giusti spiega come il Coronavirus può essere una occasione per riformare il nostro pensiero in modo da attuare il cambiamento
Cambiare si può, ma vogliamo farlo?
Qualcuno dice che siamo a una svolta, sulle relazioni umane e sul lavoro in primis. Altri dicono che non impareremo niente. Altri ancora vedono i lupi a Sesto Fiorentino e le volpi a Firenze centro e dicono che avremo altri occhi per la natura e l’ambiente. Gli ottimisti.
La verità? Un po’ in tutte e tre le cose, forse.
Non voglio prodigarmi nell’adulazione della mia caporedattrice, Valentina Roselli, ma un post che ha diffuso in questi giorni mi ha fatto riflettere. “Non siamo cambiati col nazismo, ce la faremo con due o tre mesi chiusi in casa?”. Provate a darle torto… Non è pessimismo, si chiama attenzione alla memoria. Lo sappiamo da sempre, gli italiani ne possiedono un’edizione a corto raggio, ma non mi scoraggerei.
Io credo che trasformazioni sociali drastiche e in positivo possano avvenire soltanto partendo da un substrato fertile, ciò che Edgar Morin chiama La testa ben fatta, che è pure il titolo di un suo saggio del 1999. Dobbiamo riformare il pensiero per far sì che dentro di noi si possa attuare un cambiamento. In altri termini, per cambiare davvero la società, partendo da una crisi come questa, dobbiamo abbandonare gli schemi di comportamento e atteggiamento che ci sospingono avanti nelle stesse abitudini tossiche e accogliere ciò che di buono mi offre la storia.
È un bagno di sangue, cari lettori, ma difficile non significa impossibile. E serve tempo. L’esperienza deve sedimentarsi dentro le persone, lavorare nella parte inconscia e attivare nuovi pattern di relazioni e atteggiamenti. Questo avviene perché il nostro cervello funziona generalizzando l’esperienza fatta e ampliandola in contesti sempre diversi. Della serie: se funziona lo mantengo, sennò taglio. Per dirla con i Pearl Jam: It’s evolution, baby! E se l’esperienza è negativa?
Per avere un futuro roseo serve un ambiente favorevole, ovviamente. In seno a una famiglia in cui regnino pregiudizio, l’odio verso il diverso e il contrario, in cui tutto è dovuto e gli altri (quelli che chiamiamo con tanta facilità “loro”) sono tutti dei ladri e portano le malattie, difficilmente cresceranno individui in grado di spezzare la rigidità di quella catena.
Credo anche che sia faticoso, dopotutto, lavorare su se stessi. Fatevi una domanda: è più facile capire, indagare e studiare un fenomeno per comprenderlo e soltanto dopo valutarlo, oppure affidarsi a pacchetti già confezionati (ad es. “loro” sono tutti dei ladri)?
Se vogliamo cambiare come persone, gruppi e società, dobbiamo cercare di apprendere dall’esperienza e smetterla di affidarsi a stereotipi e facili giudizi su quello che non sappiamo.
Fondamentale è mettersi in discussione come singoli, senza troppi calcoli o imitazioni, coltivare l’umiltà (merce rara di questi tempi) e sacrificare un po’ di quella comoda arroganza in cui si sguazza tanto volentieri.
La buona notizia è che inaugurare tempi migliori dipende solo da noi. Io con i complotti ci gioco, li uso per le storie che scrivo. Nessuno ci condiziona o ci obbliga alla mancanza di rispetto.
Quella cattiva è che servirà tempo, di questo sono sicuro, e un po’ fatica.
Pier Paolo Giusti