Il fondatore ed ex direttore di Repubblica Eugenio Scalfari è morto ieri a Roma all’età di 98 anni. Oggi la camera ardente in Campidoglio, dove domani si terrà la commemorazione. E’ stato un grande maestro per intere generazioni di giornalisti, ma soprattutto un “padre” per i suoi “ragazzi” nelle redazioni. Qui il ricordo di uno di loro
Quel pomeriggio arrivai in redazione abbastanza presto. Gli uffici si trovavano al secondo piano di un elegante palazzo di Piazza Cavour a Milano. Sotto un bel bar e il cinema omonimo che proiettava film di successo ma anche d’autore. Di fronte il mitico Palazzo dell’informazione, una specie di grattacielo risalente agli anni Sessanta dove avevano sede le principali agenzie di informazione, Il Giorno e il quotidiano sportivo Tuttosport. Oltre naturalmente alle postazioni dei corrispondenti dall’estero di stanza nel capoluogo. Alla redazione milanese di Repubblica si arrivava dopo aver passato una sorta di bancone che faceva da portierato: poi sulla sinistra l’ingresso ai vari settori del giornale. Lo sport era circa a metà di un corridoio medio lungo ed era confinato in una stanzuccia dove da una parte c’erano Gianni Mura e dall’altra Licia Granello. Poi ballava una scrivania e quella era a disposizione del caposervizio. Io ero rientrato dalla Pinetina di Appiano Gentile, golf club esclusivo con all’interno il centro sportivo nel quale si allenava l’Inter di Trapattoni e Zenga, Berti e Serena, dei tre tedeschi Matthaeus, Brehme e Klinsmann, che si opponeva al Milan dei tre olandesi Gullit, Van Basten e Rijkard, allenati da Arrigo Sacchi. Licia da Milanello, quartier generale rossonero, non era ancora arrivata.
La scrivania da caposervizio era occupata da Antonio Dipollina, strappato a Mediaset con una grande passione sì per lo sport ma ancora di più per la televisione e per i programmi da commentare. Cosa che fa ancora adesso. Ricordo ancora perfettamente la scena. Io tutto trafelato gli racconto della giornata di allenamento dei nerazzurri, dell’infermeria Inter come la chiamava qualche buontempone dell’epoca, e della distrazione al ginocchio di Matthaeus che aveva provocato l’ilarità totale degli altri colleghi in conferenza stampa perché quando il medico Pasquale Bergamo lo aveva annunciato, con una battuta da fiorentino in trasferta avevo alzato un dito dicendo: “Scusi, ma cosa si è dimenticato?”. Dipollina aveva i piedi sul tavolo e proruppe in una fragorosa risata al mio racconto. Ma io un attimo dopo mi fermai perché avevo come la sensazione di essere osservato da qualcuno che si trovava fuori dalla stanza. Una sensazione forte, intensa, che incuteva molta soggezione. Alzai gli occhi in direzione di quell’uomo che si trovava sulla porta e cominciai a fare strani gesti a Dipollina cercando di fargli capire che era meglio se le gambe le avesse abbassate.
L’uomo era alto, magro, imponente, con una folta barba bianca perfettamente curata e pettinata. Come il suo grande amico-editore Carlo Caracciolo al quale quasi volai in braccio qualche tempo dopo sempre entrando di corsa per portare le ultime news dall’universo nerazzurro. Sì era proprio lui, il direttore Eugenio Scalfari, “Papà” o “Barbapapà”, come lo chiamavano tutti nelle sue redazioni in segno di grande affetto e devozione. I suoi occhi celesti erano fiammeggianti e sembravano quasi volessero scrutare qualunque cosa in quel momento potessero vedere. Provai a dire qualche parola, ma dalla mia bocca non uscì niente. Lui al contrario la bocca la allargò in un sorriso un po’ striminzito e gettò lo sguardo oltre la stanza. Il viso di Dipollina lo ricorderò sempre, insieme al suo balbettio quando vide che quell’uomo che aveva fatto capolino era “Papà”.
Scalfari era arrivato a Milano per una visita alla redazione che in quel momento se non ricordo male era guidata da Mino Fuccillo. Voleva vedere stanze, postazioni di lavoro, i locali della segreteria, insomma tutto. Voleva vedere come erano sistemati “i suoi ragazzi” con quel senso di grande paternità e di famiglia che ha trasmesso a tutti quelli hanno avuto la fortuna di scrivere un giornale allora “rivoluzionario”, nel solco della tradizione della sinistra riformista come del resto ben spiegato nelle dieci cartelle che componevano il cosiddetto “patto di Repubblica” che ogni giornalista, collaboratore o redattore, doveva firmare una volta entrato in redazione. Una famiglia speciale, un senso di squadra innato, la consapevolezza di appartenere a un qualcosa di mai visto fino a questo momento nel panorama editoriale del nostro Paese, un unicum capace con le proprie analisi, la scelta delle notizie e la titolazione dei “pezzi”, di poter davvero influire sul panorama politico italiano: e sì forse anche il giornale-partito come da più parti in queste ultime ore si è ricordato. Un partito però tutto personale: quello di “Papà”. Lui non disse nulla, uscì dalla stanza e riprese il suo giro. Fu la prima e unica volta che mi capitò di incontrarlo, e il ricordo è affiorato fortissimo adesso che Scalfari ha deciso di andarsene proprio mentre si sta consumando l’ennesima crisi di governo: una crisi che la gente comune fatica a comprendere e che molto probabilmente farà aumentare ancora il tasso di astensionismo nel caso si dovesse tornare alle urne con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale.
Anni dopo, la redazione milanese di Repubblica si era già spostata in via de’ Alessandri nella palazzina che ospitava anche l’Espresso e la radio del gruppo, in una delle mie fugaci apparizioni nelle nuove stanze più eleganti e funzionali, con un openspace che conteneva tutta la cronaca, mi capitò di leggere un messaggio in bacheca: “Papà” si complimentava per l’ottima fattura del giornale di quella mattina e pregava i vari caposervizio di estendere i complimenti anche a chi materialmente aveva scritto i servizi. Fra questi, molto modestamente, c’ero anch’io al mio ultimo atto di quella meravigliosa avventura.
Ciao, direttore per sempre.