Il villino di Viale dei Mille, dove il pittore e teosofo visse con la moglie Emma Moni, è divenuto una casa-museo che farà conoscere meglio la sua opera e il suo pensiero
C’è qualcosa di magico e di straordinariamente affascinante nel villino posto quasi alla fine del Viale dei Mille a pochi passi dallo stadio. E il fascino comincia fin da subito, appena entrati, quando sulla destra del corridoio che porta nell’immenso doppio salone c’è una dedica che colpisce subito il visitatore: “a Emma dedico la mia opera che fu sua per sacrifizio e per amore”.
Casa Schlatter, oltre a essere un B&b di charme e gran pregio, da pochissimo è divenuta casa-museo dove sarà possibile vedere molti dei quadri dipinti da Carlo Adolfo, pittore, incisore, teosofo il cui mondo artistico è rimasto finora racchiuso e nascosto nella realtà privata e intima del suo atelier nel quale condivideva la vita di tutti i giorni con l’amata consorte Emma alla quale era devotissimo.
Visite su appuntamento sono già possibili ma l’intenzione della neonata associazione ‘Casa Museo Schlatter’, guidata dalla pronipote Alessandra e presentata lo scorso dicembre a Palazzo Vecchio, è proprio di far conoscere meglio non solo l’opera di un’artista importante nel moderno panorama pittorico italiano ma soprattutto il suo pensiero legato agli studi di filosofia e teosofia ai quali si ispirava anche nelle sue composizioni (info e prenotazioni telefonando al 347-1180215).
“La famiglia – racconta Alessandra, ex antiquaria e arredatrice – vedeva questa casa un po’ come un obbligo in quanto non si poteva affittare perché era piena di roba e quindi è rimasta chiusa per tanti anni con i quadri dentro di cui non si sapeva bene cosa fare. Io non ho mai conosciuto il mio bisnonno, ma mi ricordo quando venivo qua da bambina. Le pareti erano dipinte di marrone scuro, con tendaggi orientali: ed è rimasto così fino a oggi, come se lui fosse uscito da una mezz’ora. Per me era un mondo favoloso di scoperte in cui ho sempre avuto l’occasione di crescere e sensibilizzarmi a un certo tipo di contenuti. Perché in lui, oltre alla bellezza a cui mi abituava guardando le sue opere, c’erano ben presenti anche i profondi contenuti morali che attraverso queste cercava di esprimere”.
La storia degli Schlatter sembra quasi un racconto avventuroso. Di origini nobili svizzere, quattro degli otto fratelli intorno alla metà del 1800 si trasferirono in Italia. Uno di questi, Luigi Giorgio padre di Carlo Adolfo, fu nominato console generale svizzero nello Stato Pontificio. A seguito della proclamazione dell’Unità d’Italia e della presa di Roma tutte le sue proprietà terriere furono confiscate e annesse al nuovo stato contro il quale intentò una inutile causa che logorò le sue forze e lo condusse alla morte, probabilmente di crepacuore, ad appena 51 anni di età. A sua moglie, Emilie De La Morte, di origine francese ma naturalizzata svizzera, anche lei di famiglia importante, non rimase altro da fare che raggiungere la sorella, sposata a Firenze con un altro dei fratelli Schlatter, assieme al piccolo Carlo Adolfo.
“Loro due – continua Alessandra – erano molto belle ed Emilie, ancora giovane, si recava regolarmente a piedi col figlioletto al cimitero degli Allori sulla tomba del marito. Percorrendo il Lungarno fino al ponte Santa Trinita e poi, salendo verso il Poggio Imperiale, attiravano gli sguardi e infatti fu così che durante questo percorso Emilie incontrò il suo secondo marito”. La stessa cosa che accadde molti anni dopo a Carlo Adolfo, il quale compiendo lo stesso tragitto incontrò una giovane studentessa del collegio di Poggio Imperiale. Si trattava di Emma Moni, figlia del generale Onorato coinvolto nell’assedio di Porta Pia, la quale per sposare quel giovane che l’aveva colpita così profondamente sfidò la famiglia lasciando il collegio e finendo diseredata.
“A Firenze – racconta ancora Alessandra – Carlo Adolfo fu iscritto a un istituto tecnico ma lui si dedicò subito all’arte affascinato dall’ambiente di quegli anni tra macchiaioli, decadentismo, e simbolismo. Frequentando gli studi degli artisti in Piazzale Donatello e viale Milton, dove per un periodo di tempo ebbe un suo spazio, rimase fortemente influenzato dal suo connazionale Arnold Böcklin, anche lui residente in città”. La sua inclinazione artistica lo portò ad allontanarsi sempre di più dalla sua famiglia e da quella della moglie. Facendosi liquidare la sua parte di eredità costruì il villino di Campo di Marte che allora era considerata come zona di campagna, la casa immersa nel verde come si vede nel suo famoso autoritratto. Nel quartiere era conosciuto come “Il Filosofo”.
“Fu la prima costruzione di viale dei Mille – aggiunge Alessandra – ed era vicina agli studi degli artisti. Ma lui rimase sempre un passo indietro rispetto agli altri perché conduceva i suoi studi, le sue ricerche, il suo pensiero ma non faceva mai parte delle altre correnti artistiche. Solo la teosofia, per tutto il resto no. Aveva una sua visione ben precisa del mondo, in giovane età aveva partecipato a un sacco di mostre e penso che anche lì abbia maturato questo tipo di approccio perché aveva visto che era un mondo che comunque non portava a quello che pensava, dove i suoi messaggi non venivano recepiti come avrebbe voluto. Lui vedeva che il fine delle sue opere era la spiritualità: aveva vissuto sulla propria pelle come i beni materiali portassero grandi dolori e a non avere comunque la serenità e a non farci affidamento. Viveva con Emma in maniera semplice dei ricavi derivanti dalla vendita di copie d’arte che gli venivano commissionate dagli antiquari e dei disegni per ferri battuti artistici: ma mai dei suoi quadri. Andava passeggiando in giro alla ricerca del suo percorso con queste camice un po’ alla russa e non portava né cinture e nemmeno cravatte. Aveva un cordino che faceva girare intorno al collo fino ad arrivare in fondo, ai calzini, e via via tutto veniva sostenuto da questo cordino”.
Quando è mancato, nel 1958, Schlatter non ha voluto nulla che facesse pensare alla morte: nemmeno il funerale perché sosteneva che non sarebbe morto ma avrebbe continuato a vivere nei suoi quadri e poi in altre vite. “Lui – conclude Alessandra – era convinto di essere in comunicazione con l’eternità, era convinto che l’arte fosse un modo per arrivare all’eternità”.