Ancora un lutto per la grande famiglia dei giornalisti toscani e fiorentini. Fabrizio Borghini, giornalista, critico d’arte, autore di numerosi libri dedicati al cinema ma anche al calcio e a Firenze (suoi i due volumi “C’era una volta un rione a Firenze”) è morto improvvisamente all’età di 76 anni, colpito da malore durante la proiezione del primo film del figlio Lorenzo “Doppio passo”. All’amico e collega Nicola Nuti, notissimo e apprezzato critico d’arte fiorentino, abbiamo chiesto un ricordo di Fabrizio.
L’improvvisa scomparsa di una persona, un amico con cui avevi comunicato fino al giorno prima e che pensavi che avrebbe fatto parte del tuo mondo per sempre, ti lascia attonito e sapere che Fabrizio Borghini da ieri non c’è più mi ha lasciato subito più incredulo che addolorato. Poi si è fatto strada il dispiacere, profondo. Alla fine un uomo è ciò che lascia di sé, e Fabrizio ha lasciato molto, soprattutto affetto, perché era una brava persona, un professionista corretto.
Firenze non è una città generosa verso chi si occupa di arte e cultura, ma Borghini era riuscito a farsi spazio con la tenacia del suo lavoro, senza sgomitare, senza tessere o logge. Credo che in Toscana non ci sia chi, dall’esordiente all’artista affermato, non ha avuto menzione nel corso del quarantennale lavoro di divulgazione di Borghini. Giornalista, scrittore, appassionato di cinema e amante dell’arte, proprio nell’arte aveva affondato le radici della sua professione. Avrebbe potuto essere un po’ snob e provinciale, come si addice a qualche titolato operatore culturale fiorentino, ma al contrario Fabrizio accoglieva ogni forma d’arte, ogni evento, nel nome della cronaca, da vero giornalista. Non si è mai arrogato il ruolo di esperto o critico: la sua era solo passione per il racconto, per dare nota del lavoro degli altri.
Sempre trafelato tra una mostra e l’altra, capitava di fermarlo qualche minuto per due parole, che non erano mai banali: era una fonte di informazioni, notizie su eventi e personaggi anche del passato. E non erano chiacchiere, lui non parlava con malizia. Magari a volte ti raccontava del rammarico per la defezione di qualcuno, per qualche carognata ricevuta che comunque metteva nel gran calderone dell’esperienza.
Non amo i ricordi stile “io lo conoscevo bene”, ma in ogni modo il mio percorso di critico d’arte si è intrecciato con l’attività di Fabrizio fin dagli anni Ottanta, e so che a lui farebbe piacere essere “raccontato”. All’epoca ero ancora inesperto dei meccanismi dell’arte, non avevo parlato in pubblico, tantomeno davanti a un microfono e Fabrizio era seguito spesso da Pierfrancesco Listri, un “anziano” de La Nazione, abile e consumato dicitore. Quindi la prima volta che mi trovai col “gelato” davanti, porto da questo giornalista più grande di me con l’immancabile giacchetta abbottonata, ebbi una sorta di ansia da prestazione, ma l’intervista andò bene; poi lui, col suo fare “standard” mi presentò come giovane critico fiorentino e mi ringraziò. A microfono spento mi disse “poche parole ma buone. Devi imparare ad articolare di più il tuo pensiero: l’arte va spiegata”. Non era una frase di circostanza, ma un concetto di fondo che pian piano ho fatto mio: non si scrive o parla per se stessi, né per l’artista, ma per interpretare, per comunicare il mistero di un atto creativo. E’ stato anche grazie a Borghini che ho imparato a spogliare il mio approccio all’arte delle parole inutili e complesse e a spiegare, come suggeriva lui, il fenomeno artistico, dare a chi legge gli strumenti per capire secondo la sensibiltà individuale l’opera che ha di fronte. Grazie Fabrizio.